Giuseppe Tipaldo
Qual è in Comunicazione il rapporto fra Creatività, Tecnologia e Formazione
Giuseppe Tipaldo
Ph. D.Post Doc Research Fellow
Department of Culture, Politics and Society
University of Turin
Si può diventare creativi? Qual è l’importanza di una valida formazione per approdare a una professione nel mondo della comunicazione?
Sono le domande classiche, facili solo in apparenza. La riflessione attorno al concetto di creatività, per come l’ho vissuta e la vivo nella mia esperienza personale e professionale, si inserisce all’interno di un nodo particolarmente difficile da sciogliere, che è quello della comunicazione tra arte e scienza. Mi sono laureato (già con il 3+2) in comunicazione all’università di Torino, e come molti miei compagni di allora - e come molti miei studenti di oggi - la leva più forte per chi sceglie consapevolmente questo percorso (non parlo per ora di chi ci arriva con la falsa credenza che “sia più facile” di altro) è senza dubbio rappresentata dalla proiezione di sé in professioni fortemente orientate alla creatività: la pubblicità, innanzitutto, poi il giornalismo, la televisione e il cinema. Qui si apre un primo paradosso: i nostri studenti scopriranno, poco dopo l’iscrizione, che la creatività non ha (quasi mai) cittadinanza nell’università italiana. Non che sia necessariamente colpa dell’università o dei docenti che vi lavorano: è che la creatività è innanzitutto “essere” (in modo autentico, diffidare da chi recita una parte), mentre l’università contemporanea - tra logiche neoliberiste del mercato del lavoro e richieste degli studenti stessi - si sta sempre più orientando al “fare”, alla massimizzazione dell’utilità di una competenza nell’immediato. In un mondo così, sono tanti i talenti del passato che sarebbero stati scartati ben prima che il loro genio creativo potesse dare prova di sé.
Abbiamo detto, dunque, che nel corso di laurea dove insegno, Scienze della Comunicazione, ci si arriva molto probabilmente spinti dalla volontà di appagare un desiderio di creatività. Tuttavia, come ricordo a ogni prima lezione ai miei nuovi studenti, il corso si chiama scienze della comunicazione, non comunicazione e basta. Una prima soluzione, un po’ orwelliana, potrebbe essere quella di cambiare le parole con cui nominiamo le cose, sperando che muti di conseguenza anche la loro sostanza. In alternativa, occorre capire cosa significhi studiare scientificamente la comunicazione. Qui la faccio breve e dico semplicemente che “basta” applicare il metodo scientifico, (non proprio) esattamente come fece il padre della scienza moderna, Galileo Galilei, con i suoi esperimenti di fisica. Dico anche che una scienza della comunicazione non solo è possibile, ma è anche auspicabile, per provare a ridurre l’alta componente di spazzatura che circola troppo liberamente in questo settore.
Mi rendo conto di non poter stordire oltre i miei (per ora virtuali) interlocutori con lunghe digressioni di tipo metodologico, per quelle rimando ai miei corsi. Mi limito qui a riassumere un tema che molti testi di metodologia della ricerca sociale riportano (ho in mente qui Metodologia e tecniche della ricerca sociale del prof. Corbetta, ed. Il Mulino) e che chiama in causa proprio il rapporto tra creatività e scienza. Il senso comune suggerisce a questo proposito che creatività e scienza non solo non siano compatibili, ma che siano in un rapporto di sostituzione: quando c’è uno, non può darsi l’altro, e viceversa. Nulla di più sbagliato. Anche la scienza è creativa. Lo è stata e lo è ancora, moltissimo. La prima parte del mestiere di ricercatore, qualunque disciplina lo ospiti - dunque anche la comunicazione - è centrata sulla scoperta. Sapreste indicarmi qualcosa di più creativo che scoprire qualcosa che, fino a quel momento, era invisibile, esisteva solo come ipotesi nella mente di qualcuno o, ancora, semplicemente non esisteva proprio? Il punto è che perché sia scienza, occorre che questa scoperta regga la prova dei fatti, non si riveli cioè frutto del caso, un accidente estemporaneo o, peggio, un errore di valutazione, osservazione, misurazione (un po’ come la storia dei neutrini più veloci della luce in quel tunnel tra Ginevra e il Gran Sasso, vabbè, stendiamo un velo pietoso…). Qui interviene la seconda parte del lavoro di ricercatore (ribadisco, anche nella comunicazione): il momento della giustificazione della propria scoperta di fronte alla comunità scientifica.
E no, non pensiate che queste chiacchiere valgano solo per chi è dentro l’accademia o qualche centro di ricerca. La mia tesi, che sostengo con forza a lezione e che finora vedo funzionare anche nei lavori extra-accademici, è che scoperta e giustificazione siano due pilastri inscindibili e imprescindibili anche per chi esercita la professione del comunicatore: dal giornalismo alla scrittura di testi per la tv, da chi progetta strategie di mercato a chi elabora campagne pubblicitarie. Non va dimenticato, poi, che in un mercato del lavoro attualmente parecchio malconcio (anche per via, va detto, di leggi giovanicida e precarizzanti), gli unici spazi che sembrano non risentire troppo della crisi attengono a settori quasi sconosciuti in Italia (come le negoziazione, la risoluzione consensuale dei conflitti locali, la progettazione partecipata, la comunicazione tecnoscientifica e ambientale) in cui non si può sperare di lavorare se la scoperta non è sostenuta dalla giustificazione, ovvero se la creatività non è al servizio della scienza della comunicazione.
Quanto queste due componenti siano importanti è ovvio, ciò che merita chiedersi seriamente è: si possono insegnare? Beh, per me la risposta è un sì condizionato per entrambe. Pur toccando doti, tratti e registri cognitivi differenti, entrambe sono costituite da una componente soggettiva e da un’altra ambientale. In altre parole, creativi e scienziati lo si diventa, ma un po’ occorre che ci si nasca. La dedizione a un tipo di lavoro così particolare, e ancor prima l’inclinazione verso un certo modo di pensare e di guardare alle cose del mondo, sono almeno in parte innate. Perché, dunque, istituire dei percorsi formativi? Perché i tratti innati sono una parte, non tutto. L’ambiente sociale e culturale può fare e fa, in molti casi, la differenza; e poi perché a volte i veri talenti non sanno di esserlo, e hanno bisogno di qualcuno (i docenti) e qualcosa (un ambiente stimolante) che consenta loro di scoprire, passo dopo passo, la loro identità, e di metterla a servizio di una professione. Remunerativa, possibilmente.
Come vedete il settore della comunicazione e della creatività nel prossimo futuro? Quali sono le figure professionali più richieste oggi dal mercato del lavoro? Con che facilità i vostri studenti trovano collocazione al termine del percorso di studi?
Cominciamo da quest’ultima domanda: dai dati che provengono dagli organi interni universitari emerge un trend piuttosto chiaro: tra i laureati in discipline umanistico-sociali, gli scienziati della comunicazione sono coloro che trovano impiego più rapidamente conservando, in molti casi, una qualche attinenza con il percorso di studi effettuato. Il rovescio della medaglia è, come noto, che il settore comunicazione è tra i primi a subire gli effetti perversi di congiunture economiche negative.
Il mio piccolo punto di vista mi porta, anche per queste ragioni, a insistere con i miei studenti perché mollino gli stereotipi con cui in molti si iscrivono a scienze della comunicazione per orientarsi verso ambiti che, nonostante le avversità economico-finanziarie, difficilmente entreranno in crisi (o, comunque, difficilmente la subiranno in maniera devastante): l’ambiente, va ormai di moda dirlo, è senza dubbio uno di questi. Ma vado oltre, e specifico meglio: i rifiuti, per esempio. Abbiamo tremendamente bisogno di scienziati sociali che siano esperti comunicatori pronti a inserirsi nei vari gangli che compongono la gestione integrata dei rifiuti: dalle politiche di riduzione a monte e riutilizzo al riciclaggio (vi garantisco che progettare la comunicazione per il passaggio dai bidoni stradali al cosiddetto “porta a porta” può risultare ben più stimolante e complesso di molti ambiti in apparenza più cool) e allo smaltimento, che spesso avviene con l’insediamento di impianti (discariche e inceneritori, ma anche impianti di trattamento a freddo, bioessiccatori ecc.) non particolarmente graditi alla popolazione.
Poi c’è tutto il tema della comunicazione di scienza e tecnologia - e della disseminazione della conoscenza scientifica - su cui l’Unione Europea insiste ormai da anni e che recentemente è stato definitivamente integrato nelle politiche dell’Unione con il programma quadro Horizon 2020. Ma non c’è solo questo. Ci sono le università stesse e i centri di ricerca internazionale che hanno ormai centri specializzati nella comunicazione e richiedono personale altamente qualificato: prendiamo il più noto, il Cern di Ginevra. Pensate forse che progettare l’apparato comunicativo attorno alla scoperta del bosone di Higgs sia meno intrigante del piazzare un’auto o una scatola di cioccolatini? Beh, non sapete cosa vi state perdendo…