Stefano Colombo
Direttore Creativo e Head of Art Publicis
Stefano Colombo
Direttore Creativo e Head of Art Publicis
Quest’anno vorremmo puntare l'attenzione sui premi internazionali vinti da agenzie italiane. Come giudica il rapporto tra creatività italiana e creatività estera?
Noi italiani non siamo sicuramente in pole position in questo periodo. Da qualche anno non stiamo brillando, dal punto di vista dei premi internazionali. Credo che tra le cause di questo processo possa esserci una congiuntura di mercato troppo conservativa, dal punto di vista dei clienti, che non permette un certo tipo di prestazione tranne per alcune punte che riescono a distinguersi. A mio parere esiste inoltre una sorta di pregiudizio all’estero, in quanto sembra che un progetto proveniente dall’Italia debba per forza essere di serie B. Questo a mio modo di vedere non è vero, perché sappiamo ancora distinguerci, abbiamo ancora cervelli in grado di lavorare bene, quindi i risultati dipendono solo dalle possibilità che ci vengono date.
Quali sono i riconoscimenti internazionali ricevuti dalla vostra agenzia negli ultimi anni?
Nel 2005 abbiamo ottenuto una nomination in Short List al Festival Internazionale della Pubblicità di Cannes per la campagna “Watch your step” Ikea, un Certificate of Honour a Marco Venturelli per la campagna McVitie’s Digestive “Rincuora gli inglesi” al Cannes Lions Young Creative Competition, una medaglia d’oro sempre per “Watch your step” Ikea all’ Epica Award; l’anno scorso invece abbiamo ottenuto la medaglia d’Argento nella categoria “Image Campaign” per la campagna Rai “Mai Soli” al Promax World Gold 2007 e un Best print concept per Girard-Perregaux al Prix Suisse De La Campagne Horlogère.
Crede sia possibile investire concretamente su forme di comunicazione non convenzionale?
Al giorno d’oggi ci si ricorda di un brand per l’esperienza che si ha del brand stesso. Oramai la comunicazione si sta spostando su campi generici. A questo proposito poi esiste un’ottima risposta dei media e anche del pubblico, e in futuro diventerà molto importante arrivare ad esempio a fare pubblicità tramite il cellulare e tramite tutti i nuovi mezzi che sono sempre più presenti nella vita quotidiana delle persone. Infatti capita sempre più spesso che gli stessi clienti ci chiedano di cambiare tattica, di trovare qualcosa di meno convenzionale per osare e utilizzare i cosiddetti ‘new media’. Questo perché i media convenzionali richiedono sempre grossi investimenti e i brand ricercano nuovo orizzonti anche per spendere meno.
Come vi state comportando in questa direzione?
Publicis Dialog fa parte del nostro network e si occupa proprio di marketing, eventi, operazioni sul territorio, nonché di digital/new media con Publicis Modem. La nostra peculiarità straordinaria risiede nel fatto che ogni sezione operativa risiede nello stesso building. Spostandoci di piano in piano possiamo occuparci di progetti trasversali e tra loro diversi. Questa commistione tra aree è sempre più importante perchè ci permette di avere una maggiore progettualità anche su operazioni di comunicazione non convenzionale.
Uno dei temi di quest’anno per le nostre interviste riguarda il team di lavoro e la sua composizione. Com’è composto il vostro team?
Publicis, come quasi tutte le agenzie, è composta da tre grossi nuclei che sono account, planner e comparto creativo. Il brief viene dunque metabolizzato da questi tre nuclei e viene a formarsi un team composto da direttore creativo, planner e account in contatto col cliente, che si trovano insieme prima di passare il lavoro alla sezione creativa, per studiare il brand, il prodotto o servizio da comunicare, sottolineando gli elementi chiave su cui puntare. Credo che per trovare l’input da cui partire, per trovare il bandolo della matassa della campagna, sia fondamentale l’unione tra queste diverse professionalità. Infatti ritengo che la fase di approaching iniziale sia molto importante. La fase successiva lo è ancora di più, in questa fase il coach, nel nostro caso il direttore creativo, deve stimolare ed educare, facendo partorire l’embrione dell’ idea, rafforzando i punti chiave del progetto. E’ necessario avere sempre una grande determinazione.
In un settore come il nostro il coaching è determinante, soprattutto dal punto di vista psicologico: con i tempi sempre molto brevi, il lavoro è stressante e il coach deve lavorare per attivare il gruppo nella maniera migliore, in quel poco tempo che si ha a disposizione.
Come si immedesima nell’importante ruolo di “head of art”?
Personalmente mi ritengo principalmente un direttore creativo, la definizione “head of art”proviene dal mondo anglosassone. Certamente ci sono progetti particolari nei quali può esserci la necessità di un apporto trasversale da parte mia, e in tal caso mi comporto di conseguenza, dando un aiuto in questo senso, non tanto ai creativi senior quanto ai giovani che hanno bisogno di una guida.
Qual è il suo pensiero riguardo all’utilizzo delle collaborazioni freelance?
Personalmente in questo periodo non me ne avvalgo, ma noto che il mercato è sempre più orientato in questa direzione, verso l’outsourcing, tramite contratti a progetto o a tempo determinato, ricercando la personalità di spicco per un progetto particolare. Credo che il rapporto con i freelance debba in ogni caso essere guidato dall’interno dell’agenzia. È rischioso affidare all’esterno un progetto senza poi avere la possibilità di seguirlo passo a passo.
Concludiamo con un augurio al mondo della comunicazione…
Spero che si possa cominciate ad osare di più perché credo che nel nostro paese esistano aziende e marchi importanti e anche agenzie creative all’altezza. Basterebbe avere più coraggio.