Diego Fontana
Il progetto informazione e i nostri strumenti di comunicazione: Parola o Immagine?
Diego Fontana Copywriter freelance
Come parole e immagini convivono oggi nella formulazione di un concetto? Quale di questi strumenti avrà la meglio in termini comunicativi?
Cominciamo dalla seconda domanda. In termini comunicativi, personalmente, ho sempre trovato piuttosto ridicola la dicotomia tra parole e immagini che spesso all’interno delle agenzie si viene a creare per una semplice ragione: a lavorare su un progetto sono un copy e un art. Penso che noi occidentali abbiamo perso un sacco di tempo prezioso con la mania di voler vedere contrapposizioni ovunque: corpo e anima, concetto e forma, particelle e onde, digitale e analogico.
Mentre noi ancora ci aggrovigliamo attorno a queste dicotomie, il mondo fluisce placido per i fatti suoi, infischiandosene della contrapposizione tra parole e immagini. Il mio approccio non è mai stato quello di chiedermi “quale di questi strumenti avrà la meglio”. In termini comunicativi, un concetto può essere espresso con innumerevoli strumenti: profumi, gusti, superfici da toccare, suoni, pensieri, immagini. Ho sempre pensato che un comunicatore, per fare bene il suo lavoro, deve essere neutro verso i suoi strumenti, come un idraulico lo è con la cassetta dei suoi attrezzi. Chiederemmo mai a un idraulico: per aggiustare un tubo è più importante la cagna o la chiave inglese? O a un muratore: per costruire un edificio sono più importanti i mattoni o il cemento? Ogni volta è una storia a sé; il bravo professionista possiede tutti gli strumenti e, di volta in volta, seleziona quelli più corretti per il progetto che deve affrontare, dosandoli nel modo che ritiene più giusto. Da copy, non ho problemi a non mettere un titolo se la comunicazione non lo richiede. E poi diciamo anche questo, onestamente: le parole e le immagini sono così importanti per noi comunicatori perché finora abbiamo avuto a disposizione media che parlavano a due soli sensi: vista e udito.
Se la televisione funzionasse abitualmente in odorama, a quest’ora i profumi sarebbero inclusi nel dibattito. Con l’avvento degli Ipad, ad esempio, la cosiddetta stampa potrà essere addizionata dai suoni. Immagino un annuncio dove toccando una caffettiera si potrà sentire borbottare, o magari si potrà sentire il vento che fruscia tra le sabbie del deserto. Penso di aver risposto anche alla prima domanda.
Il progettista-creativo attraverso questi strumenti elabora un modello d’informazione da proporre all’utente che al meglio rappresenti le caratteristiche del prodotto e lo guidi a un processo di consumo responsabile: deve così informarlo e renderlo sempre più attivo. Una comunicazione pubblicitaria efficace consente l’accesso al prodotto ben prima del suo acquisto. Le informazioni contenute in un messaggio devono consentire la fruizione immediata delle sue qualità. Il prodotto così viene dunque apprezzato ben prima di quando viene toccato con mano.
Quale ruolo sta avendo l’utente nella creazione del messaggio pubblicitario? In un’ottica di interscambio, come l’utente giudica le informazioni che riceve?
Che l’utente stia diventando sempre più protagonista, è sotto gli occhi di tutti. Direi che da anni il ruolo del “progettista-creativo” non è quello di essere una freccia che dal prodotto arriva verso un bersaglio. Piuttosto si tratta di intercettare un territorio comune in cui ci possa essere un incontro sereno tra persone e marchi. Con lo sviluppo dei social media diventa ogni giorno più vero che una marca è anche una persona con gusti, abitudini, valori e interessi propri. Grazie a facebook per esempio è possibile incontrare e conoscere realmente i marchi e dialogare con loro, come lo si farebbe con amici e colleghi. Addirittura, si potrebbe sostenere che in questi ultimi anni il concetto è stato esasperato, e si è venuta a creare quasi una gara a chi rende più protagonisti gli utenti. Penso ad esempio agli spot virali finto “user generated” – cioè video che sperando di incontrare meglio i gusti del pubblico vengono realizzati come se fossero stati fatti dal pubblico stesso, cercando di eliminare il distacco naturale che un utente ha nei confronti di un messaggio pubblicitario.
Penso dunque che il nostro ruolo sia anche quello di aiutare i marchi a trovare un equilibrio, sviluppando appieno la propria personalità, in modo che sia interessante per un certo tipo di persone. Come disse qualcuno, la pubblicità non serve a vendere, ma a farsi comprare.
Oggi le modalità del linguaggio pubblicitario (sintetico, efficace e diretto) sono diventate di dominio pubblico. Utilizzate in molti contesti della comunicazione (SMS con il telefono cellulare, chat e email attraverso internet...) in particolare dai giovani, portano a parlare per slogan e abbreviazioni, riducendo sempre più i testi e rendendoli molto più diretti.
Come si pone rispetto a questi sviluppi il lavoro degli uomini di comunicazione che devono trovare un nuovo linguaggio sintetico che non sia percepito come "logoro" e possa incuriosire e attrarre le nuove generazioni? Quanto può incidere uno slogan a rendere unico l’oggetto del messaggio?
Non sono molto d’accordo con i termini in cui è posta la domanda. Un conto è la sintesi, che significa aver la capacità di condensare, di creare sottotesti, di lavorare sul non detto, sull’evocazione. È una capacità altissima, sulla quale un copy continua ad allenarsi per tutta la vita. Un conto è l’abbreviazione: ad esempio xché invece di perché. In un certo senso, se la mettiamo in termini concreti, sono l’una l’opposto dell’altra. Se ho grandi capacità di sintesi non sono costretto a ricorrere ad abbreviazioni per far rientrare il mio messaggio all’interno dei caratteri richiesti da un sms. Inoltre penso che il ruolo di un copy sia proprio quello di evitare come la peste gli slogan, il già sentito, il linguaggio “pubblicitese” per intenderci. Ogni volta che sento un finto rap o un finto slang giovanile dentro a uno spot, personalmente rabbrividisco.
Parole e immagini possono interagire a tal punto da diventare un tutt’uno espressivo carico di significati: giocando per esempio con i colori e le forme possono diventare segno distintivo di un’azienda, di un prodotto o di un servizio, un’“icona” portatrice di valori che nel tempo si consolida nella mente del consumatore a garanzia di un prodotto di qualità. In genere mentre la parola introduce il concetto utilizzando il linguaggio, il simbolo la scavalca diventando icona, intelligibile quindi ad un pubblico più vasto.
Nello storytelling, quanto concorre a comunicare efficacemente un messaggio il raccontare un concetto con un’ immagine di forte impatto emotivo? L’immagine, icona-simbolo, può avere in sé la proprietà evocatrice di una certa marca e diventare portatrice dei valori che questa desidera rappresentare?
Una delle prime espressioni umane, così almeno ci raccontano, è stata l’impronta di una mano sulla parete di una caverna. L’immagine simbolica fa parte della storia dell’uomo, è nel nostro dna di esseri con uno sviluppato senso visivo. Però il linguaggio iconico non è l’unica forma di racconto possibile per un marchio. Pensiamo al rumore del Mac quando si accende: è una firma con un’immensa capacità evocativa; così come lo è stata ad esempio l’audio-logo di BMW. Per chiudere il cerchio anche con la domanda iniziale, penso che un comunicatore, per essere creativo, debba mantenersi fluido e saper padreggiare molteplici linguaggi. Se ad esempio oggi una marca mi chiedesse di rappresentarla con un simbolo, non darei immediatamente per scontato che si debba partire da un’icona.