ENTRARICERCA

Pasquale Barbella
Lezioni di copywriting. Tre pezzi facili.

Senza titolo

Docente di comunicazione pubblicitaria presso l'Università degli Studi di Milano, facoltà di Lettere e Filosofia. Copywriter e direttore creativo dal 1967 al 2003, ha pubblicato articoli e saggi professionali e, nel 1995, un romanzo, "Giardinineri". Due volte presidente dell'Art Directors Club Italiano, è stato poi eletto nella Hall of Fame della stessa associazione. Vincitore di molti premi italiani e internazionali, ha partecipato nel 1990 alla fondazione di un'agenzia, BGS (Barbella Gagliardi Saffirio), stimata fra le più brillanti del mercato. Prima di lasciare il business nel 2003, è stato membro del D'Arcy Worldwide Board of Directors e leader creativo D'Arcy per l'Europa.

UN’AVVENTURA FERROVIARIA (di Pasquale Barbella)

Tra le esperienze più insidiose per un copywriter c’è quella di spiegare al prossimo che tipo di lavoro è il suo. Ho avuto in passato parecchi grattacapi a tale riguardo, e ho imparato a rispondere in modo evasivo alle domande sul mestiere che faccio.

Ma a dispetto della mia reticenza e delle mie astuzie, corro seri pericoli quando la fatale domanda mi viene posta da individui indiscreti e poco arrendevoli. Ora siamo in treno da Bari a Lecce, fa un caldo boia e un temibile attaccabottoni mi ha già raccontato tre quarti della sua vita: la giovinezza in Sicilia, il matrimonio fallito, la professione di insegnante di lettere in una scuola media di Treviso, le sue preferenze in fatto di donne («Non ho mai incontrato donne così belle come a Verona e Lecce»), le sue crisi spirituali e i suoi autori preferiti (Denis Mack Smith e Federico Chabod).

Sono un po’ in ansia per la domanda che non tarderà ad arrivare, ma confido nel suo egocentrismo: è così impegnato a parlare di sé che non presterà soverchia attenzione ai fatti che mi riguardano. Ma eccoci al punto:

«Lei di cosa si occupa?»

«Pubblicità.»

«Ah! Dev’essere divertente. Farsi venire in testa tutte quelle idee estrose, e poi disegnarle.»

«Io non disegno. Scrivo i testi.»

«Gli slogan?»

«Gli slogan e il resto. Tutto quello che lei trova scritto in un annuncio, o che sente nei comunicati alla televisione.»

«Caspita, è interessante.»

«Così, come tanti altri mestieri.»

Pausa di circa trenta secondi. Round numero due:

«Vorrei farle una domanda, ma non vorrei essere indiscreto.»

«Per carità, dica pure.»

«No, non importa. È solo una mia curiosità.»

«Beh, se la tolga. Non si faccia scrupolo.»

«Ecco, non le capita mai di sentirsi – come dire – un po’ responsabile? Intendo dire del consumismo, della piega che ha preso la nostra civiltà.»

«Mah. Non più responsabile di un gommista, o di un prestinaio, o di qualunque altro cittadino che cooperi al funzionamento del sistema.»

«Eh, non faccia il modesto. Altro che gommista. La sua è una professione più subdola, il suo scopo dichiarato è quello di influenzare la gente. No?»

«Però la gente lo sa e ci sta attenta. Anche lei è pagato per influenzare gli altri, a scuola.»

Vi risparmio i successivi quindici minuti di dialogo, che io spendo per sostenere la risaputissima tesi secondo cui ci si può difendere meglio dall’informazione interessata che dalla cosiddetta informazione disinteressata, eccetera eccetera.

Il professore demorde, ma solo a metà.

«Non vorrei averle creato qualche scrupolo di coscienza, non so, dei sensi di colpa.»

«No, no.»

«Tanto più che lei è un simpatico, un onesto, e anche un uomo di cultura: si vede subito. Lei per esempio non reclamizzerebbe un cibo velenoso pieno di additivi cancerogeni. Ho indovinato?»

«Chiaro, mi rifiuterei. Senz’altro.»

«Lo dicevo. D’altra parte, spero di non averle dato l’impressione di sottovalutare la bellezza del suo lavoro: che più ci penso, più mi sembra affascinante.»

«Sì, è abbastanza vario.»

«Suppongo che ci vogliano delle doti per farlo: una fervida immaginazione, una inclinazione alle discipline umanistiche, una istintiva genialità.»

«Più che altro è una questione di allenamento.»

«Va là, non si nasconda. Uno come lei deve avere una specie di vulcano dentro. Non si può scrivere né inventare niente se non si hanno i cromosomi, la passione. Copyright si nasce. Ho detto bene: copyright?»

«Copywriter.»

«Che in italiano si traduce?»

«Redattore.»

«Ma santo cielo, perché al giorno d’oggi c’è tutta questa frenesia di importare parole straniere quando la nostra bella lingua...»

«Oh, in questo caso è solo per non confonderci con i redattori dei giornali.»

«Eppure basterebbe dire, che so, redattore pubblicista.»

«C’è differenza fra un pubblicista e un pubblicitario. I pubblicisti scrivono articoli sulla stampa.»

«Anche lei mi ha detto che pubblica i suoi scritti sulla stampa, no?»

«Sì, ma sotto forma di inserzioni, di réclame.»

«E non siete tutti iscritti nello stesso albo?»

«Nooooo.»

«Uhm, trovo ingiusta questa discriminazione. Lei pubblica opere dell’ingegno sui grandi mezzi di comunicazione proprio come un giornalista, firma i suoi articoli e...»

«Veramente io non firmo. Di solito un copywriter non firma.»

«Cristo, è un vero peccato! E come farò a riconoscere le sue opere? Ora che ci siamo conosciuti vorrei seguire il suo lavoro, cercare di lei ogni volta che sfoglio una rivista.»

«Grazie, è gentile, ma temo che non sia possibile.»

«Allora mi dica, mi dica qualcuna delle sue frasi più famose. Ha inventato lei quella del Vecchia Romagna che crea un’atmosfera?»

«No, credo sia stato Marcello Marchesi.»

«E lei, lei cosa ha scritto?»

«Boh, tantissime cose, ma ora non me ne viene in mente nessuna.»

«Ma, per esempio, ora sta lavorando su qualcosa? Che tipo di prodotto?»

«Quando torno a Milano dovrò occuparmi di una macchina fotografica.»

«Ah, un oggetto fantastico. Io adoro la fotografia. La invidio: vorrei essere al suo posto, invece di ritornare alla solita routine scolastica.»

Si asciuga il collo sudato. Grattandosi con insistita noncuranza il pacchetto genitale, ritorna all’attacco:

«Lei non ci crederà, ma come ha parlato di apparecchi fotografici nel mio cervello è scattato un clic.»

«Davvero?»

«Lei non si offende se le suggerisco due o tre frasi che mi son venute in mente?»

«Ma no, perché dovrei offendermi.»

«Gliele dico, altrimenti non me ne libero più. Sono piuttosto carine, credo.»

«Sentiamo.»

«Dunque, una dice così: Cogli l’attimo fuggente prima che... prima che... Cazzo, mi è scappata via.»

«Peccato.»

Ahi, ahi. Dal taschino della giacca tira fuori la biro. Da un’altra tasca un minuscolo notes. E Lecce è ancora lontana.

«Bisogna scrivere», sentenzia. «I pensieri sono dispettosi: vengono e vanno. E io voglio esserle utile perché, anche se la conosco solo da mezz’ora, mi sembra di esserle amico da una vita.»

Scrive. Intanto io rimugino sulle sue ultime parole: cosa diavolo avrà voluto dire? Non si sarà mica invaghito di me? Io non ce l’ho con gli omosex, ma non vorrei essere obbligato a spiegargli che non ci sto.

Ha scritto. Ora sorride con tutta la felicità di cui sono capaci i cinquantenni un po’ svitati. E recita ad alta voce:

«Cogli l’attimo fuggente, prima che il vento porti via per sempre le leggiadre parvenze che ti circondano.»

Cincischio un complimento, semisoffocato dall’imbarazzo. E lui:

«Aspetti, aspetti che ne ho scritta un’altra, forse ancora più significativa. Ecco: Il sole bacia i tuoi capelli, o Ermione, e io vorrei imprigionare la tua eterea immagine con questa macchina fotografica che freme come l’anima mia.»

«È vagamente letterario. Forse un po’ dannunziano.»

«Bravo, vedo che lei si ricorda di Ermione e della Pioggia nel pineto. Ma ho pensato che il sole si addice più della pioggia al suo problema. La propaganda non può concedersi malinconie, vero?»

«Concordo pienamente.»

«Ora sia sincero, mi dica francamente: potrei essere anch’io un copyright?»

«Non ne dubito. La stoffa c’è. Potrebbe essere un brillante copywriter.»

«Non dice così per farmi un complimento?»

«Stia tranquillo.»

«Non mi giudichi presuntuoso», incalza riassettandosi il pacchetto; «ma ho idea che con un po’ di esercizio saprei essere migliore di tanti altri. A volte mi capita di dare un’occhiata a queste benedette réclame, e tante mi sembrano scritte con la mano sinistra: senza poesia, senza un minimo di buona letteratura dentro. Io, se non altro, ho frequentato per tanti anni il Foscolo e il Manzoni, il Pascoli e il Carducci: a qualcosa dovrà pur servire il mio bagaglio culturale.»

Guardo istintivamente il portabagagli e tossisco. «Peccato che sia così difficile inserirsi», azzardo. «Il nostro purtroppo è un ambiente un po’ chiuso, e poi questo non è un momento dei più favorevoli.»

Il disgraziato ride. «Ma io facevo solo un’ipotesi, così per gioco. Ormai ho la mia età e non mi sento di lasciare il certo per l’incerto. Però mi promette una cosa?»

«Che cosa?»

«Quando tornerà a Milano, scriva una delle frasi che le ho suggerito, quella che le è piaciuta di più. Così quando la vedrò stampata sul giornale, mi ricorderò di questo incontro.»

«Sa, non dipende da me. Dovrà piacere anche ai colleghi con cui lavoro. E poi al cliente.»

«Quale cliente?»

«Il padrone delle macchine fotografiche.»

«È un uomo di buone letture?»

«Non lo so, non lo conosco ancora.»

«Gli dica che la frase è sua, se questo può aiutare. Del resto è un regalo che faccio a lei, perché mi va di farlo. Sinceramente. Senza fini di lucro.»

«Ci proverò.»

«Promesso?»

«Promesso.»

«Sto pensando che magari potremmo scambiarci gli indirizzi e tenerci in contatto. Così ogni volta che le servisse una mano, io vedrei di poterla aiutare.»

«Oh, non si scomodi. Lei è talmente occupato con la scuola. Mi ricordo che il mio professore di lettere, al liceo...»

«Nessun disturbo, lo giuro. A meno che non sia lei a trovare la cosa fastidiosa... Ma non credo. Io ho quasi vent’anni più di lei, potrei essere come un fratello maggiore; non dico come un padre, perché in fondo sono molto più giovane della mia età.»

La porta dello scompartimento si apre. Che sia la Provvidenza? Forse sono salvo. Una ragazzona un poco accigliata, sui trentacinque, entra e si accomoda vicino a me. Il professore di lettere la squadra fino alle radici, poi guarda me con aria di complicità, quindi si rivolge decisamente alla sopravvenuta:

«Le dà fastidio il finestrino aperto, signorina?»

«Oh, no, grazie. Fa un caldo. Qui si sta un po’ meglio che nell’altro scompartimento.»

«Va a Lecce anche lei?»

«Sì. Non ci sono mai stata; ne abbiamo ancora per molto?»

«Venticinque minuti esatti. Sbaglio o lei ha un accento piemontese?»

«Sono di Torino.»

«Città straordinaria. Ho insegnato lettere in un liceo di Torino nel Cinquantanove e nel Sessanta. Poi i casi della vita mi hanno portato a Treviso.»

«Ah.»

«E lei di cosa si occupa?»

(Da un opuscolo autopromozionale dell’agenzia STZ, 1977).

Copywriter

Copywriter è nome composto formato da due elementi: il sostantivo copy nell’accezione di “testo scritto di un messaggio pubblicitario” e writer (autore, scrittore), sostantivo dal verbo to write (scrivere). Si noti che, in riferimento all’attività in questione, viene usato il gerundio copywriting che significa quindi “lo scrivere testi pubblicitari”.

Copywriter. Convulso cacciatore di metafore. Scrittore biodegradabile e quindi riciclabile, pronto a passare dall’esaltazione del doppio brodo a quella dell’assorbente igienico. Attento analista del costume, incline tuttavia a confondere il cinema con la vita e la vita col cinema. Consumista inquieto di prodotti e miti. L’unico deviante accettato dal sistema (che altro sarebbe la creatività, se non trasgressione?). Ex figura sospetta, poco amata dalle persone perbene a cavallo degli anni Sessanta e Settanta. Vezzeggiata dai magazine del decennio successivo. Protagonista di tutte le microinchieste possibili, da quella sul trend anti-adulterio di Attrazione fatale a “Cosa ne pensi delle rockstar androgine”. Ha letto Comma 22 nel ’68 e tutti i minimalisti vent’anni dopo. Ama Chandler svisceratamente. Proust è troppo lungo.

Fiero avversario, e vittima, di test e ricerche motivazionali. Sempre in bilico fra passione e ragione. Estimatore dei premi assegnati con serietà. Contestatore dei premi vinti da altri. Habitué del festival di Cannes, dove puntualmente lamenta che la pubblicità italiana fa schifo, senza precisare se nel mazzo mette anche la sua.

Vizi e virtù di un testo pubblicitario.

Overclaim. Eccesso di promessa. Esempio: Usando Spic & Span ritroverete la gioia di vivere. Potete scrivere una cosa simile solo se è chiaro l’intento ironico. Altrimenti, occhio alle dichiarazioni incredibili.

Understatement. Il contrario dell’enfasi. Esempio: Certo, un bacio vero è più importante di un bacio Perugina. Anche se gli manca il sapore del cioccolato.

Negative approach. Approccio negativo usato come arma retorica. Esempio: Buttate fuori i vostri account executive. Abbiamo organizzato per loro un massacrante corso di aggiornamento di due settimane alla Yale University. Vi costerà un sacco di soldi, ma ne vale la pena.

Snob appeal. Diciamo la verità: la nuova Turba Sport fa solo otto chilometri con un litro. Ma nessuno compra una Turba per risparmiare.

La rima. Artificio vecchio e pericolosissimo, a meno che non lo si usi in contesti decisamente spiritosi. Chi non mangia la Golia o è un ladro o è una spia.

Dramma (o, all’inglese, drama, che fa più figo). Un minimo di drammatizzazione qualche volta non guasta. Visitate lo Zoosafari di Fasano. L’unico posto al mondo in cui rischiate di farvi rubare i tergicristalli e lo specchietto retrovisore da un branco di scimmie.

Il gusto della contraddizione. Il Kenya vi aspetta. Niente può farvi sentire così bene come il mal d’Africa.

Il doppio senso. Lavate le vostre lenzuola con Dash. Passerete le più belle notti in bianco della vostra vita.

Il colpo di scena. Abbiamo chiuso dodici preziosi bicchieri di cristallo in una Samsonite. Abbiamo gettato la Samsonite dal 33° piano del grattacielo Pirelli. I bicchieri si sono rotti.

La dimostrazione. L’esempio precedente è già una dimostrazione. Eccone un altro più semplice. Visual: una ragazza Watussi avvolta in un lenzuolo. Testo: Dixan lava così bianco che tutto il resto sembra più scuro.

La domanda retorica. Che scusa avete trovato per non comprare una spilla di diamanti alla donna che farebbe qualsiasi cosa per voi?

L’aut-aut. Se non regalate Chivas Regal, dovrete accontentarvi di bere la marca di whisky che hanno già in casa.

La lezione. Uno dei tanti modi per cominciare una headline è “Come” o “Cosa”. Esempi: Come imparare l’inglese senza andare a scuola (corsi di lingua per corrispondenza); Cosa indossare questa estate a Saint Tropez (visual: bagnante nuda).

La comparazione. Quella diretta è ammessa solo a certe condizioni. In ogni caso è opportuno adottare forme retoriche che vi mettano al sicuro dalla querela. Esempio: Mon Cheri vi farà dimenticare i soliti cioccolatini del tubo.

Statement. È una dichiarazione pura e semplice sul prodotto. Nel peggiore dei casi è una trascrizione piatta del briefing: La calcolatrice tascabile Sharp si distingue per lo splendido design. Ma se c’è veramente qualcosa di nuovo da dire, anche lo statement ha i suoi pregi: La calcolatrice tascabile Sharp ha uno spessore di soli 12 mm.

La citazione capovolta. Per una marca di utensili: L’uomo nobilita il lavoro. Per le Renette del Trentino: Anche chi non Vespa mangia le mele.

Il linguaggio colloquiale. Da un annuncio Chivas Regal della DDB, annata 1966: E dài. Spendili questi 2 dollari in più. È Natale, no?

Il paradosso. Alka Seltzer on the rock. Un classico di Mary Wells, con un bicchiere d’acqua frizzante, ghiaccio e fettina di limone da long drink.

Questi sono soltanto alcuni dei tanti stili di approccio. Possiamo scoprirne molti altri, osservando la pubblicità intorno a noi. Ma una volta identificati gli schemi possibili, liberiamocene subito. Potrebbero diventare delle trappole: la cosa, credo, di cui abbiamo meno bisogno in questo mestiere.

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1 agosto 2022
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