Piero Babudro - Giornalismo, Comunicazione, New Media
Le interviste Mediastars XII edizione
La comunicazione può fare squadra?
Partiamo da un presupposto: la comunicazione, in quanto tale, deve (o meglio, dovrebbe) fare squadra, proprio perché processo che implica uno scambio attivo di informazioni, conoscenze, opinioni. Per quanto mi riguarda, mi ritengo uno dei pochi appartenenti alla mia generazione che ha scelto la carriera del freelance, dato che mi consente una maggiore libertà di manovra e un approccio più creativo alla professione giornalistica, senza trascurare la comunicazione d’impresa e il mondo del Web 2.0.
Ad ogni modo per il mio tipo di lavoro è essenziale sapersi rapportare con una serie di soggetti diversi, per approccio ed esigenze, e cercare di mediare tra il mio ruolo di “battitore libero” e quella che è la visione aziendale del mercato e degli interlocutori disponibili. E forse questo il mio punto di forza principale: saper conciliare le esigenze di indipendenza e creatività con il team di lavoro – anzi, i team di lavoro – con cui collaboro o a cui offro le mie consulenze. Certo, non sempre è possibile ricevere una formazione adeguata, ma anche questo costituisce l’elemento elettrizzante della questione. Il mio naturale approccio con la Rete – frutto di anni di esperienza, prima come appassionato e poi come professionista – senza dubbio mi aiuta. Sono portato a pensare che assieme si possano trovare soluzioni laddove il singolo fatica a muoversi. Occorre però che i singoli si impegnino per trovare una sintonia di pensiero, e sappiano dimostrare la giusta flessibilità in termini di idee.
Pensa che si possa verificare una combinazione altrettanto fortunata anche per quanto riguarda il settore della comunicazione italiana rispetto a quella estera?
Lo spero. Prima di tutto, prima ancora degli investimenti in tecnologie e risorse umane, occorre un deciso salto di mentalità. Il nostro è ancora un Paese che fatica a capire che, per esempio, la banda larga non è solo un modo per portare la Rete nelle case, ma un importante vettore per l’economia. Discorso che vale soprattutto nei settori in cui il Made in Italy potrebbe ritagliarsi ancor più di oggi un ruolo importantissimo nel mondo. A volte capita di confrontarsi con aziende e liberi professionisti che hanno paura a confrontarsi con altre realtà (freelance, studi di professionisti, altre aziende), per non parlare di quando devono investire sulle nuove forme di comunicazione, dal blog aziendale ai video corporate su YouTube. Anche questo è un atteggiamento di chi non vuole fare squadra, di confrontarsi schiettamente cioè con una moltitudine indistinta ma, al tempo stesso, tangibile di soggetti a cui aprirsi. Ed è forse oggi una delle componenti che più ci allontana dagli altri Paesi.
Crede che il nostro settore sia ben rappresentato dalle Associazioni della comunicazione italiana? Con la vostra struttura o personalmente aderisce a qualcuna di queste? Quanto si sente partecipe delle loro iniziative?
Personalmente non partecipo a nessuna associazione di categoria, e forse anche questo atteggiamento è un po’ frutto del mio approccio alla professione. Ad ogni modo, credo che lo scopo principale di ogni sodalizio debba essere quello di tutelare i propri iscritti, favorendone la partecipazione, senza però ridursi alla mera protezione di interessi di casta.
All’interno della vostra struttura riesce a delineare quali sono stati i risultati della sua attività di coaching? E in particolare pensa di essere un buon coach di se stesso?
Sicuramente il mio primo obiettivo è cercare di mettere partner e collaboratori a loro agio, in modo da conoscere le proprie potenzialità e quindi lavorare con più passione e con cuore. Credo che la base di ogni attività di coaching sia questa.
Le è capitato di pensare di aumentare le capacità del proprio team, cercando di migliorare le competenze e le performance relative, intervenendo con un approccio mirato alla collaborazione con professionisti freelance?
Si. Dalla scorsa estate collaboro con alcuni studi di professionisti dell’advertising, con i quali mi occupo di comunicazione aziendale e di pubbliche relazioni. E posso dirmi molto fortunato, in quanto il rapporto che si è venuto a creare va ben al di là della mera relazione professionale. Si tratta di uno scambio attivo e propositivo, in cui ogni soggetto coinvolto è ben conscio delle proprie potenzialità, ma sa anche di poter contare sulla professionalità degli altri.
In un mercato sempre più competitivo la motivazione e la forza del gruppo possono essere ciò che fa la differenza. Quali possono essere a vostro giudizio le potenzialità di un buon coaching, dovendo quindi intervenire su team di progetto orizzontali, verticali e anche trasversali?
Conoscere se stessi, i propri pregi. Sapere in ogni momento che un buon risultato è frutto di cooperazione e di un attitudine aperta e schietta, anche nei momenti più impegnativi. E sapere che, anche nel gruppo più eterogeneo, il singolo non deve rinunciare alla propria personalità e alla propria creatività.