Il Nome sulla Maglia
Sport e Sponsor
Si era all’alba del boom degli anni 60: Giovanni Borghi, il gran patron della Ignis, dopo le folgoranti intuizioni che avevano dato vita a una intera generazione di elettrodomestici, capì per primo che lo sport poteva essere il grande tramite per far vendere prodotti nazionalpopolari.
E l’ingegnoso imprenditore lombardo non badò a spese pur di portarsi a casa a Varese (anzi, a Comerio): una squadra di basket, una colonia di pugili, una equipe di ciclisti e un club calcistico che spopolava in IV serie (nel grande calcio non si poteva entrare allora con la pubblicità, bensì con una presidenza del Varese A.C., affidata al figlio).
Antesignano di tutte le sinergie, dopo aver vestito di giallo atleti di tutte le discipline, il Giovanni Borghi confezionò un autentico capolavoro comunicazionale ordinando al suo velocista di fiducia, Antonio Maspes, un surplace record sulla magica pista del Vigorelli, proprio davanti al cartello che riportava il marchio Ignis (in Helvetica nero) ripreso dalle telecamere di stato: sicchè gli occhi di qualche milione di italiani ne fecero autentica indigestione…e fu quella sponsorizzazione non criptata lo spot più lungo (e gratuito) di tutta la storia.
Mettere il nome di un’azienda sulle magliette del grande sport è comunque un primato che spetta alla pallacanestro. Già nel 1936 Adolfo Bogoncelli, fondatore della Olimpia Milano, ebbe l’idea della fusione del club biancorosso con il Dopolavoro della Borletti che, nel 1948, si abbinò ufficialmente alla squadra.
La gloriosa maglia meneghina si è poi fregiata delle sigle Simmenthal (1956), Innocenti (1973), Cinzano (1975), Bevi Billy (1978), Simac (1983), Tracer (1986), Philips (1988), Recoaro. E siamo all’Armani dei giorni nostri. Ve la immaginate una squadra di calcio che cambia nome n volte? No di certo.
Non c’è niente di più sacro del nome ( e dei colori sociali) di un club della pedata: ed è stata questa ragione culturale, oltre all’autosufficienza economica, a far sì che gloriosi nomi quali Genoa 1893 e Juventus Football Club resistessero a tutte le tentazioni e a tutte le epurazioni linguistiche. Ed è questo il motivo che ha ritardato sino agli anni ottanta l’ingresso dei nomi degli sponsor sulle maglie. In effetti si riesce a tifare ben più volentieri per nomi che partono dalla Magna Grecia e dintorni (Turris, Leonzio, Akragas, Torres, Fidelis Andria, Virescit) che non per le sigle dopolavoristiche come Asti Macobi, CRDA Monfalcone, BPD Colleferro, Rosignano Solvay, Chinotto Neri, Cral Cirio, Lilion Snia Varedo, Falk Vorbano, Pellizzari Vicenza, Marzotto Valdagno, Toma Maglie, Incedit Foggia ecc…
Eppure fu proprio l’alibi dopolavoristico a far scattare il primo abbinamento (non sponsorizzazione!) del calcio professionistico: si era nel 1953 e dalla fusione tra Lanerossi Schio e il Vicenza nasceva il Lanerossi Vicenza, dizione che radio e TV pronunciavano per intero sicchè Mamma Rai faceva senz’altro della pubblicità nominale gratis, estremamente utile all’industria laniera.
E il calcio biancorosso, in cambio di una R sulle maglie, ci guadagnava qualche lira utile per le campagne acquisti. Sull’esempio dell’esperienza vicentina nascevano gli abbinamenti voluti dai marchi petroliferi: Zenit Modena, Sarom Ravenna, Ozo Mantova. Anche due industrie alimentari, la Simmenthal col Monza e la Talmone col Torino, sposavano la squadra della loro città. In questo caso l’invasione di campo incominciava a farsi pesante. Per mettere a posto le coscienze, bastava proclamare che, in definitiva, sulle maglie ci finiva solo una grossa lettera iniziale T (che poteva leggersi come Talmone ma soprattutto come Toro). La O di Ozo, poi, messa lì all’altezza del cuore, era in pratica un circolino così minuto che poteva scimmiottare i contorni di uno scudetto. A decretare la morte degli abbinamenti ci pensarono vuoi la scaramanzia (Talmone Torino ed Elah Genova pagarono il pesante tributo di una retrocessione), vuoi il veto Pasquale (presidente federale). L’art. 16 comma M del regolamento organico della Federazione recitava infatti : “Durante qualsiasi gara non è consentito ai giocatori portare sulle magliette distintivi…”.
Sulle maglie no, ma sui calzoncini? Ed ecco la furbata di Teofilo Sanson (Udinese) che venti anni dopo il decreto oscurantista trova la strada per mandare in campo il suo nome “iscrivendolo” sui bianchi mutandoni dei suoi giocatori. La storia finì con una multa e con il divieto di indossare i capi incriminati. Ma intanto si era aperta una breccia e, su pressione di marchi e società, la Federcalcio cominciò a lasciare qualche spazio a sponsor tecnici e merchandising. Altro trucco viene sperimentato nel 79/80, da Torino, Cagliari e Genoa che riescono a mettere rispettivamente i nomi Cora, Alisarda e Seiko sulle tute di riserve e raccattapalle.
E finalmente, a partire dal campionato dell’81/82, frontiere aperte anche alle aziende e per le merceologie non tecniche: 200 preziosi centimetri quadrati disponibili a tutto. Mentre il colosso industriale italiano più attivo nel campo della sponsorizzazione sportiva – il magno Benetton – investiva in basket, pallavolo, rugby, pallanuoto, e Formula 1 (con la singolare…formula di pagamento a tempo, commisurata ai minuti di presenza registrati dalla sua macchina sui teleschermi) e si assentava dal calcio, eccoci agli spazi privilegiati che lo sport nazionale offriva a sponsor, sponsor tecnici, co-sponsor, fornitori ufficiali: scarpe, calzettoni (sponsor tecnico e logo societario), calzoncini (idem come sopra), maglia di gara, maglia della salute…
I pionieri, nella stagione 81-82, la prima aperta alla pubblicità sulle maglie, furono 28: 16 per le squadre di A e solo 12 per quelle di B. Alcuni di questi nomi hanno fatto la storia della sponsorizzazione. Barilla ha portato a Roma uno scudetto e il record di longevità (13 anni). Da notare una curiosità:ben 2 anni prima il pubblicitario milanese Corrado Montoneri aveva proposto al Milan di scrivere, sul lato B delle maglie, il nome del calciatore.
Marchi e loghi sono oggi visibili e leggibili su accessori, borse dei massaggiatori (sempre a favore di telecamere, quando un giocatore è a terra…). E per il dopopartita, ecco i decori parietali della stampa: lì “mister” e protagonisti vengono letteralmente messi al muro, e mentre telecamere d’assalto registrano le dichiarazioni a botta calda, il telespettatore “dovrebbe” leggere dietro (l’intervistato) una lunga serie di loghi trasversali…
Niente, in confronto a quella grande e unica scritta trasmessa in surplace dal Commendator Borghi…
[a cura di Cesare Righi]