Angelo Faravelli
Partner e Responsabile Clienti Advance
Iniziamo dalla brochure Carle & Montanari: una proposta piuttosto insolita per la tipologia di prodotto...
Carle & Montanari è una azienda di macchinari per la produzione del cioccolato, quindi un prodotto molto tecnico, business to business; ciononostante, abbiamo cercato di raccontare una storia, un’emozione, anche se si parlava di macchine...
Il risultato è una brochure dove i classici canoni della monografia (la storia dell’azienda, i servizi, l’innovazione...) vengono interpretati in modo creativo, con illustrazioni che raccontano ogni aspetto in modo nuovo dal punto di vista visivo: una scelta in cui noi credevamo molto, tant’è vero che anche l’illustrazione è stata realizzata internamente, da una nostra art director, che ha proposto questa visualizzazione poetica, molto particolare...
In questo caso, l’azienda si è potuta permettere di utilizzare un linguaggio evoluto perché leader mondiale nel suo campo, con una gloriosa tradizione alle spalle: basti pensare che Carle & Montanari ha prodotto la prima macchina per fare i Gianduiotti, non c’è produttore di cioccolato che non conosca e non utilizzi i loro prodotti; addirittura negli anni ’90 in Qatar hanno stampato dei francobolli che rappresentavano i loro macchinari!
Quindi si trattava di rilanciare, di riportare agli antichi splendori un brand con una notorietà del 100%, che negli ultimi tempi era stato un po’ abbandonato a se stesso; ora, poiché il mondo è pieno di aziende che fanno macchinari e in questo settore l’innovazione non è così forte, era impossibile differenziarsi sul prodotto e dunque abbiamo scelto di utilizzare un linguaggio fortemente innovativo.
Quindi siete stati voi a proporre questa strada?
Sì, è un’idea che abbiamo spinto noi, perché ci credevamo molto: voi siete i più famosi nel mondo, avete una storia unica, avete un prodotto che funziona, potete permettervi di fare così... abbiamo trovato il management molto aperto, avevamo presentato anche qualcosa di più tradizionale, ma è stata scelta questa strada.
Anche i loro clienti sono stati contenti: la brochure si rivolgeva comunque al mondo del cioccolato, un mondo ‘morbido’ per definizione, propenso ad accettare una comunicazione giocata sull’emozione, anche se non solo, perché chiaramente quella brochure va affiancata da brochures tecniche, che spiegano i dettagli delle macchine.
E’ piuttosto raro che un cliente business to business faccia una comunicazione di questo tipo, però a volte capita.
Adesso ad esempio stiamo lavorando per un’azienda che produce valvole per rubinetti, con cui abbiamo messo a punto un nuovo prodotto, sviluppato da un designer, per cui abbiamo creato un nome, un brand, un packaging, degli espositori.... a volte anche il B2B ha risorse insperate.
Questa comunicazione ‘emozionale’ fa dunque parte un po’ del vostro stile?
Noi siamo convinti che qualunque tipo di prodotto possa essere venduto giocando sull’emozione: un’emozione si ricorda, un dato oggettivo si dimentica in fretta.
Dunque ogni marca, per differenziarsi ed essere ricordata, deve diventare un ‘emotional brand’; quello che cerchiamo di dare a tutti i prodotti è per l’appunto un mood emotivo che li caratterizzi: questa è un po’ la nostra ‘firma’, nell’ambito della consulenza sul brand.
Penso che questo modo di lavorare, cercando sempre di trovare qualche appiglio emozionale nel prodotto sia, oltre che più efficace, anche più divertente per chi ci lavora; i nostri stessi clienti, lavorando insieme a noi, si stupiscono del contenuto emozionale che il loro prodotto può avere.
Questo vale anche per il packaging: se io guardo un pack e mi comunica dati freddi, finisce nel calderone; senza l’emozione non riusciamo a far sì che la mano scatti e il prodotto finisca nel carrello.
Dunque lo stesso discorso si può applicare al packaging di ‘Ti voglio’?
La case history di ‘Ti voglio’ è piuttosto rappresentativa del nostro modo di lavorare: infatti non ci siamo occupati non solo del packaging ma dell’intero sviluppo del brand, quindi abbiamo studiato il nome, il marchio, la confezione ed ora stiamo studiando un progetto web.
Il brief del cliente era molto semplice: voleva posizionarsi nella fascia alta del mercato dei biscotti, un mercato saldamente presidiato da colossi molto sedimentati, per differenziarsi dai quali si è scelto di connotare il prodotto come ‘moderno’ e ‘metropolitano’.
Ci siamo quindi allontanati dall’immaginario tradizionale del biscotto (immagini bucoliche, mulini, campi, ecc.) giocando sul tema della ‘sensualità’, con un approccio deciso, un po’ spregiudicato, a partire già dal naming ‘Ti Voglio’; un tema, quello della sensualità, che viene adottato in modo ancora più esplicito nell’attuale campagna affissioni.
In particolare, nel packaging abbiamo scelto di mettere in forte risalto l’immagine di prodotto, per valorizzare la ricerca di design che è stata fatta su quasi tutti i biscotti; poi si è scelta una identica cromia per tutta la linea, giocata sul colore arancione, privilegiando la coordinazione di linea rispetto alla differenziazione di prodotto; per quanto riguarda il materiale si è poi scelto di usare, per quanto possibile, l’alluminato, che sottolinea la ‘modernità’ del prodotto.
Quindi abbiamo optato per scelte di comunicazione piuttosto innovative, che stanno iniziando a premiare: cominciamo ad avere dei riscontri interessanti e la gamma si sta allargando nell’ambito dei biscotti e snack salati: siamo attualmente a 25 prodotti.
Che cosa caratterizza il lavoro creativo nel packaging design?
Noi consideriamo naturalmente centrale il ruolo del packaging nella comunicazione, lo vediamo come lo strumento di ‘contatto’ per eccellenza: mentre l’advertising è lo strumento di impatto, molto forte ma poco preciso, il pack è ciò che mette il consumatore in contatto reale con il prodotto; quindi per noi la confezione è lo strumento che comincia a costruire l’immagine di marca, le fondamenta.
Anche se le doti di basi di un creativo sono le stesse, il designer di pack deve sviluppare alcune sensibilità specifiche rispetto al creativo pubblicitario: innanzitutto deve avere un background tecnico, deve conoscere i limiti imposti dal processo di stampa, le caratteristiche dei diversi supporti...; poi deve sviluppare una forte capacità di capire il prodotto, perché la confezione è il prodotto, soprattutto nella grande distribuzione, dove il pack è ciò che il consumatore di fatto sceglie e compra, ciò che può fare la fortuna o la sfortuna del prodotto; inoltre deve avere grandi doti di sintesi, deve saper comunicare in 10 cmq di spazio, che il consumatore guarda per pochi secondi...
Com’è nato il vostro interesse per il packaging design?
Io preferirei parlare di ‘brand e packaging design’, perché per me la confezione non è che uno strumento per comunicare il brand: noi non ci limitiamo a ‘fare scatolette’ ma partiamo sempre dallo studio o quantomeno dall’esame del brand.
Noi siamo nati nell’88, dal ‘93 ci siamo specializzati nel brand e packaging: sia io, che mi occupo della parte strategica e commerciale, che il mio socio Enrico Malinverni, che è il direttore creativo, eravamo molto attratti dal mondo del design per cui ci siamo orientati verso una specializzazione in questo settore, che nel tempo ci ha dato delle soddisfazioni.
Certo, è un mondo senza lustrini e paillettes, che ti deve proprio piacere; anche i grafici che vengono da noi provenendo dal mondo dell’advertising restano però sorpresi dallo scoprire come dietro un packaging possa esserci un mondo così complesso, che coinvolge aspetti tecnici ma anche strategici; è un mondo affascinante, anche se meno appariscente del mondo della pubblicità.
La cosa che più mi piace è che si parte da un prodotto ‘nudo’, anzi, a volte il cliente non ha nemmeno il prodotto ma solo un concetto: noi lavoriamo insieme a lui sul prodotto, gli costruiamo un nome, un’immagine, un vestito... lo vediamo nascere e crescere, fino al momento in cui è in grado di camminare e può passare alle mani del pubblicitario che lo lancia...
Ma non solo il lancio di un prodotto è coinvolgente, anche la rivitalizzazione di vecchi marchi è un’esperienza affascinante: abbiamo lavorato su vecchi marchi gloriosi, come Bialetti, l’olio Maya... marchi che hanno una grande tradizione... è una cosa molto impegnativa ma molto bella, perché lì i risultati si vedono subito... a noi fortunatamente non è mai accaduto, ma ci sono marchi che dopo un restyling sbagliato o eccessivo hanno dovuto tornare precipitosamente indietro...
Qual è il trend di questi settori, la corporate image da un lato e il packaging dall’altro?
Per quanto riguarda il mercato della corporate image, va detto che si tratta di un campo ancora molto indietro: le aziende attribuiscono pochissima importanza all’immagine istituzionale e infatti sul mercato sono pochissime le strutture specializzate in questo tipo di comunicazione: nel nostro caso, costituisce sì e no il 10-15% del nostro lavoro.
Peccato, perché è un mondo molto interessante e complesso: per noi, fare comunicazione corporate non significa fare il marchio e la carta intestata, significa ragionare insieme all’azienda, sul suo posizionamento, sulla sua mission e poi trasformare tutti questi ragionamenti in un’immagine istituzionale.
Questo purtroppo capita piuttosto raramente, non c’è ancora una cultura adeguata, soprattutto in questo momento di incertezza in cui il cliente guarda al breve periodo, mentre per definizione i progetti di corporate guardano al medio-lungo periodo.
Molto diverso è il discorso del packaging: oggi il suo ruolo è in fortissima ascesa e forse riesce addirittura a trarre vantaggio da questo momento un po’ difficile, perché il packaging va comunque fatto e fare un buon packaging non costa molto di più che farlo brutto... quindi assistiamo ad un netto miglioramento del livello qualitativo delle confezioni e ad una sempre maggiore attenzione delle aziende verso questo strumento di comunicazione.
A questo proposito ci tengo a citare l’attività della PDA - Pan-European Brand Design Association - l’unica associazione europea che raggruppa agenzie di brand e packaging design, di cui io sono da poco responsabile italiano: in Italia siamo in 11 operatori in questo campo e la PDA ambisce a diventare un po’ il punto di riferimento di un settore che sta crescendo molto, anche per stabilire norme di correttezza sul mercato: ha già preso una posizione sull’etica della concorrenza, ha sviluppato un documento che dà le ‘istruzioni per l’uso’, per fare sì che la concorrenza diventi uno strumento positivo di sviluppo del settore.
Quindi voi guardate al futuro con un certo ottimismo?
Riteniamo che il peggio sia passato e guardiamo al 2004 in modo molto positivo, perché vediamo che i clienti ricominciano a ragionare nel medio termine, diversamente dagli ultimi due anni in cui ci chiamavano all’ultimo momento, per progetti poco ragionati, che ci costringevano a lavorare frettolosamente, a discapito dell’efficacia.
Ora finalmente ricominciamo a vedere lo sviluppo di progetti a medio termine: il cliente ragiona in modo più strategico, pianificando prodotti nuovi, con un orizzonte temporale di un anno o più, e questo è un buon segnale, perché significa che anche il cliente vede la fine di questo momento di incertezza.