Enrico Lehmann
Osservatorio Internazionale
Pubblicitario, pubblicista e saggista. Tra le sue pubblicazioni: Come si realizza una campagna pubblicitaria (Bridge 1991, Carocci 2002), Spot & bit (Il Sole-24 ORE 1996) Le professioni della pubblicità (Carocci 2001).
Ha lavorato in grandi agenzie internazionali a Milano, Roma, Londra e New York.
E’ stato presidente del gruppo McCann-Erickson Italiana, Presidente e Amministratore Delegato di Publicis, collaboratore di Italia Oggi e de Il Sole-24 ORE.
Attualmente insegna presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ Università Statale di Milano e al Master in Brand Communication di Polidesign e Assocomunicazione.
Lungo il percorso professionale che l’ha portata a interfacciarsi con diverse realtà a livello internazionale, quali sono i fenomeni più significativi di cui è stato testimone?
In oltre trent’anni la pubblicità è cambiata in modo significativo. Prima di tutto sono aumentati gli investimenti. In tutti i paesi la loro crescita ha accompagnato lo sviluppo economico e forse ne è stata uno dei fattori determinanti. In secondo luogo sono cambiate le modalità e la filosofia creativa. Quando oggi guardiamo un commercial degli anni sessanta ci sembra incredibilmente ingenuo e retorico, eppure possiede una spontaneità di cui oggi si sente la mancanza. Col tempo le strategie si sono affinate, anche se a volte si ha l’ impressione che siano troppo coercitive nei confronti della vis creativa. Inoltre l’esigenza di aumentare l’ impatto per rispondere alla proliferazione dei messaggi ha generato un’ eccessiva aggressività, sia nei contenuti sia nella frequenza di esposizione, per lo più vissuta dallo spettatore come fastidiosa imposizione.
Un’altra grande metamorfosi riguarda il disegno organizzativo del sistema-comunicazione. Da un lato le agenzie hanno visto l’ irruzione di nuove professionalità come le promozioni, il relationship marketing o il web design, che ne hanno modificato cultura e modus operandi; dall’altro vi è stata una forte concentrazione di strutture. Per fare un esempio, tradizioni consolidate come quella di JWT, O&M, Y&R, per decenni considerate grandi navi scuola, sono finite fra le braccia di Martin Sorrell, interessato soprattutto agli aspetti finanziari del business. Ma il risultato non è stato necessariamente negativo: Sorrell ha solo sfruttato le opportunità che gli si sono presentate e ha messo a posto i conti delle agenzie acquisite. Semmai è da imputare ai vecchi manager l’aver trascurato la parte economico-finanziaria e di sviluppo della loro attività, tutti presi com’erano dagli aspetti più gratificanti, come quelli creativi e professionali.
Un fatto positivo comunque è l’ accettazione ormai diffusa della pubblicità come elemento informativo per il consumatore, superando la sua vecchia immagine di fattore mistificante.
Infine v’è l’ apparire e l’ affermarsi di nuovi mezzi, il web in primo luogo, anche se dal punto di vista della sua utilizzazione come strumento pubblicitario sembra dare meno di quanto apparentemente promette.
Come vede l’attuale momento storico? E le prospettive di sviluppo?
Quando si hanno le idee confuse, a una domanda come questa si risponde in genere col dire che “si è in un periodo di passaggio”. Certamente il serpeggiare di un certo disorientamento può confermare questo assunto. La polverizzazione dei mezzi di comunicazione - la TV generalista sta cedendo terreno a quelle tematiche e al web, mentre la stampa ha visto l’affermarsi della free press e si difende con gadget e abbinamenti – pone nuovi problemi, soprattutto ai media planner. In Italia il peso della TV resta eccessivo e malgrado i quasi 5000 milioni di euro incassati nel 2005 la qualità dei programmi è spesso al limite della decenza; i media buyer dovrebbero essere più esigenti sui contenuti delle trasmissioni e non accontentarsi delle promesse dei concessionari. Il futuro? La comunicazione commerciale resta uno dei principali strumenti di sviluppo, però deve anche essere conscia delle proprie responsabilità. Perciò è augurabile che sia meno suadente e più convincente, meno invasiva e più intelligente, proprio nel senso etimologico di questo termine. Deve smetterla di scimmiottare modalità tipicamente hollywoodiane e trovare un creatività più semplice, più fresca, più immediata, più pepata, meno artificiosa. L’ uso esteso e indiscriminato di testimonial e star presenter denota una diffusa caduta di creatività. Sembra quasi che la confezione del messaggio sia ormai demandata alle case di produzione e ai protagonisti dello show business e ciò non è un segno incoraggiante. In poche parole, le agenzie devono recuperare la loro centralità, mentre i clienti devono finirla di giocare al ribasso della remunerazione.
Un ultimo aspetto di novità è l’ ingresso delle tecniche pubblicitarie nella comunicazione sociale e in quella politica, anche se in quest’ ultimo caso non sono sicuro che ciò sia del tutto positivo: ha contribuito a far salire oltremodo l’ emotività in una scelta che fondamentalmente dovrebbe essere razionale.
Esiste una cultura della pubblicità?
Da sempre la pubblicità ha una cultura eteroriferita, che si rifà alla sociologia, alla psicologia, ad alcune manifestazione dell’arte e alla cultura popolare. Per questo gli studi sul fenomeno pubblicità sono pochi se confrontati con quelli inerenti ad altre discipline. In più, come diceva David Ogilvy, i pubblicitari leggono pochi libri, perché sono presi a leggere un sacco di scartoffie, anche se ci auguriamo che dai tempi di Ogilvy la situazione sia cambiata. In un paese in cui per diversi anni la pubblicità è stata vista con sospetto, la sua credibilità è stata affermata più dagli istituti di ricerca, che dalle agenzie o dai grandi investitori. Forse perché le prime sono forzatamente deboli, non hanno una reale autonomia, in quanto la loro esistenza dipende in modo quasi totale dai secondi, i quali a loro volta sembrano primariamente interessati ai numeri: audience, copertura, costo dei GRP, sconti.
La costruzione di una cultura autonoma della pubblicità passa attraverso la consapevolezza da parte dei protagonisti che la pubblicità non è solo uno strumento per aiutare le imprese ad aumentare le vendite ma che è anche un patrimonio di tutti i cittadini-consumatori, un punto di riferimento prezioso nelle scelte di acquisto. Il rispetto dell’intelligenza del consumatore dovrebbe essere la preoccupazione principale di un comunicatore, ma sovente si ha l’impressione contraria.
Com’è possibile insegnare una materia atipica che ha comunque meritato la dignità di disciplina accettata e inserita nei corsi universitari?
Ho trovato un grande interesse ed entusiasmo negli studenti. Alcune tesi sono fatte con grande competenza, oltre che passione. Il problema semmai nasce a studi ultimati, quando il neo-laureato deve inserirsi nel mondo del lavoro. Qui la domanda sopravanza di gran lunga l’ offerta. Sarebbe bello che l’università potesse in qualche modo fare da tramite fra i giovani laureati e l’universo della comunicazione. In alcuni casi ci riesce.
Dall’esterno si ha spesso l’immagine del mondo accademico come di una cittadella sotto assedio, che tenta di difendere la sua “sacralità” con le unghie e con i denti. Non nego che in alcuni casi sia così, però vi è una forte componente innovativa anche all’interno delle università. Non si può insegnare, ad esempio, sociologia, economia o comunicazione senza essere aperti a ciò che succede nel mondo.