Leo Menozzi
L'intrattenimento in comunicazione per un coinvolgimento unico
Leo Menozzi
Fondatore, Presidente e Direttore Creativo
Mare Nostrum Comunicazione
Crede che l’intrattenimento attraverso il sorriso in tutte le sue espressioni possa rappresentare una tecnica di comunicazione interessante? Pensa che si possano riprodurre elementi che richiamino l'ironia anche con tecniche di visual?
L’ironia è, da sempre, una delle armi più utilizzate nella comunicazione pubblicitaria. Pensiamo alla lezione di Bill Bernbach per esempio, o alle intuizioni di Howard Gossage, inventore della celebre campagna dell’aria rosa.
Riuscire a far sorridere chi ti ascolta è uno dei modi più raffinati che si hanno per creare complicità, per instaurare un dialogo, per avvicinare il consumatore e farlo sentire più protagonista, più rispettato, più partecipe.
L’ironia, se è raffinata, sottile e intelligente può essere usata anche da brand serissimi, la cui immagine è integerrima: penso alla case history dell’Economist, studiata ormai in tutte le scuole di comunicazione. Se poi è così intelligente da trasformarsi in autoironia, è segno di grande forza da parte di un brand: significa che non si ha paura di scendere dal piedistallo, che si è realmente disposti a fare un passo nella direzione dei propri consumatori, verso quel dialogo tra brand e persone che l’evoluzione dei media incoraggia e rende ogni giorno più reale.
Potrebbe essere interessante e utile, per alimentare il dibattito, notare come forse in Italia l’ironia si tenda un po’ a confondere con la comicità: il sorriso diventa spesso risata, a volte sguaiata. Così, se si pensa al sorriso in pubblicità, nel nostro paese viene in mente più un certo tipo di commedia all’italiana forse un po’ caciarona, che la raffinatezza complice e intelligente. E anche per questo, forse, alcuni brand rifiutano categoricamente l’ironia quando viene loro proposta, in nome della seriosità e della rispettabilità.
Eppure l’evoluzione mediatica e la nascita dei media sociali, per esempio, sembrano proprio portarci nella direzione opposta, verso una necessaria capacità di sdrammatizzare certi toni, di sorridere insieme al proprio pubblico e qualche volta di sapersi anche prendere un po’ in giro.
Quale è l’importanza dell’esperienza ludica, del gioco, nell'intrattenimento dell’individuo? Quanto è importante creare un meccanismo interessante, per ottenere l'attenzione e divertire le persone facendole anche riflettere?
Creare, progettare, avventurarsi in percorsi con la mente: credo che tutto questo non sia altro che un grande gioco, a cui noi progettisti accettiamo di giocare ogni giorno. Abbiamo alcune regole da rispettare, altre da inventare, e ogni giorno accogliamo la sfida di metterci in gioco. Credo che parte del successo di alcuni progetti, vada ricercato nel piacere reale che il creativo ha provato in fase di ideazione e realizzazione.
Forse si potrebbe sostenere che il progettista non è altro che un uomo che non ha mai smesso di giocare, ma al contrario ha imparato a farlo con estrema serietà, rigore e rispetto verso le regole che il brief gli impone di seguire. D’altra parte, non mi sembra che l’esperienza ludica si esaurisca nell’età infantile e non solo per chi svolge il mestiere del creativo. Cambiano i modi e si evolvono i meccanismi, ma l’uomo prova piacere nel giocare ad ogni età: le software-house creano consolle e giochi ogni giorno più evoluti, che divertono e intrattengono persone sempre più in su con l’età, gli I-Phone e gli I-Pad hanno fortissime componenti ludiche, i media sociali sono colmi di giochi che si utilizzano online.
Trovo che sia naturale, quindi, che anche la comunicazione si impadronisca delle componenti più ludiche e proponga veri e propri giochi agli utenti, intrattenendoli, coinvolgendoli in storie, o dando loro la possibilità di creare contenuti.
Tutto questo si riallaccia al tema della domanda precedente: il rapporto in evoluzione che sta intercorrendo tra brand e pubblico e che porta ogni giorno di più verso uno scambio più diretto, più vero forse, sicuramente meno mediato di un tempo, quando la comunicazione era in fondo a senso unico: si creava una pagina pubblicitaria per veicolare un concetto attraverso l’emozione, ma non si aveva la possibilità di una risposta immediata e diretta del destinatario del messaggio.
Onestamente, credo che questo sia uno degli aspetti fondamentali della comunicazione di questi anni e di quelli a venire.
Quanto è importante far sentire ogni individuo una persona speciale cercando di renderlo davvero protagonista, motivandolo e facendolo diventare così brand partner? Far star bene il consumatore ricaricandolo di energia rinnovata, come crede possa essere legato alla parola, spesso abusata, di benessere?
Credo che il tema di questa domanda sia fortemente legato a quello delle precedenti. Oggi, molto, a livello di comunicazione, si gioca e si giocherà sul concetto di credibilità. I brand che ottengono i migliori risultati sono quelli che adottano comunicazioni trasparenti, sostenibili rispetto alla verità dei loro prodotti e del target di riferimento.
I nuovi media sono strumenti potenti che si possono facilmente trasformare in armi a doppio taglio: oggi è molto più facile rispetto a 10 anni fa, per chiunque, scovare velocemente contenuti sul web e diffonderli in rete. Se un brand non è trasparente e aderente alla propria realtà di marca, il rischio “figuraccia” è dietro l’angolo. Per questo è preferibile instaurare rapporti basati su uno scambio onesto, rispettoso e reciproco con i propri potenziali clienti, in modo da far loro capire l’importanza reale che rivestono.
Ci sono casi che sono andati oltre, mi riferisco ad esempio al cosiddetto design partecipativo, in cui gli utenti stessi sono addirittura coinvolti in una o più fasi di progettazione, con modalità differenti a seconda del brand.
Del resto, il valore del rispetto verso il proprio target è un concetto di cui parlava già, diversi anni fa, proprio Bill Bernbach, che ho citato all’inizio di quest’intervista.