ENTRARICERCA

Fabrizio Bernasconi
Amministratore Delegato RBA Design

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Iniziamo con uno sguardo d’insieme sul mondo pubblicitario: come cambia, che cosa lo caratterizza oggi?

Se vogliamo fare una prima generale valutazione del mondo della pubblicità oggi penso sia più corretto parlare di “comunicazione di marca” e non più di pubblicità a sé stante. Credo infatti che oggi il bisogno delle aziende di comunicare debba sempre più essere risolto attraverso strategie di comunicazione globale che utilizzino i molteplici mezzi a disposizione, tutti comunque coordinati e sinergici alla veicolazione di un messaggio univoco che porti alla marca. Questo approccio si sta rendendo sempre più necessario ed efficace a fronte di una situazione di crescente affollamento, rumore, stimoli dove è difficile farsi notare e parallelamente una tendenza strutturale alla riduzione dei budget di comunicazione che porta i nostri clienti a dover ottimizzare le risorse.

Per quanto riguarda le tendenze, appunto, purtroppo nei periodi di crisi come questo la conseguenza è l’appiattimento, che porta all’indifferenziazione e quindi all’invisibilità.
A questo proposito vorrei citare Seth Godin, il famoso guru americano, che nel suo libro ‘The Purple Cow’ dice in sostanza ‘stop advertising, start innovating’: certo, non dice smettiamo di comunicare, ma cominciamo a pensare all’innovazione.
Sempre più le aziende che traggono vantaggio dalla comunicazione sono quelle che sanno innovare; penso che l’innovazione sia oggi il drive più importante per uscire da questa situazione in cui si rischia di confondersi, perché tutti cercano di gridare più forte con il medesimo messaggio: i prezzi, la convenienza, i vantaggi di breve... per cui alla fine nessuno emerge.
Ma la comunicazione viene fatta per farsi vedere, per rendersi attraenti, e oggi sempre di più è importante pensare in maniera un po’ diversa, per essere identificati, per essere remarkable, citando ancora Godin: questo deve essere un po’ il punto di riferimento, ‘essere remarkable’, per il messaggio e per il modo in cui lo si veicola, essere qualcosa di diverso, uscire dal coro.
Questa deve essere una linea guida sia per noi, che facciamo soprattutto brand identity e packaging design, sia per la comunicazione pubblicitaria. Certo, non è facile, perché oggi prevale la paura, la ricerca del risultato sicuro, però credo che il coraggio paghi, che rischiare sia positivo, anche se certamente bisogna rischiare con buon senso, con una solida strategia alle spalle.

In questo contesto, come cambia il vostro ruolo?

Soprattutto in questo particolare momento, che potremmo definire abbastanza buio, chi fa il nostro mestiere di consulente, di fornitore di servizi legati alla marca, deve prendersi la responsabilità di stimolare i clienti all’innovazione: quindi ripensiamo al prodotto, al suo posizionamento, alla sua identità visiva, alla comunicazione.

Oggi invece prevalgono sempre più visioni di breve termine, un po’ di confusione, di timore: questo è comprensibile, ma la nostra responsabilità è quella di essere propositivi, di credere fortemente nella missione della marca, di proporre e riproporre in termini proattivi questa logica di innovazione e differenziazione, anche in un momento in cui è difficile farsi ascoltare.

Anche il packaging assume dunque un ruolo diverso?

Certo, il packaging è oggi sempre più importante, perché il packaging è ‘prodotto’ ed è ‘punto vendita’, e oggi il punto vendita sta assumendo una rilevanza sempre maggiore sulle decisioni di acquisto; quindi gli aspetti di innovazione, di identità e di personalità nel caso del packaging, che è il vestito del prodotto, acquisiscono sicuramente grande importanza.
Credo che oggi il pack debba essere visto come strumento dinamico, che si rinnova nel tempo per restare sempre attraente e contemporaneo ma mantiene al tempo stesso, in quanto elemento portante dell’identità di marca, le caratteristiche base di riconoscibilità e personalità della marca/prodotto.
L’agenzia deve quindi saper riconoscere il capitale di immagine della marca, che la rende riconoscibile, che non può essere toccato e gli altri elementi che possono essere modificati. Questo richiede una forte visione strategica: il packaging non va più considerato come uno strumento staccato dagli altri mezzi di comunicazione ma deve essere uno degli elementi di un piano concertato e globale, fortemente sinergico.

Che cosa sta cambiando nel packaging?

Sicuramente è migliorato – se parliamo di food – nell’appetite appeal, nella visibilità della marca, nella descrittività del prodotto, ma credo che ci sia molto spazio ancora in Italia - rispetto ad altri paesi - per l’innovazione, sia in termini di technical design sia in termini di immagine: noi italiani siamo abbastanza conservatori rispetto al mercato anglosassone o anche al mercato spagnolo, che è più vicino a noi per mentalità; all’estero si può vedere che osano un po’ di più, mentre noi abbiamo, soprattutto nel food, una grande tradizione e quindi dei codici molto consolidati.
Questo però non ci deve impedire di costruire marche che si fanno notare per la loro personalità, per il loro carattere distintivo, sia graficamente, sia per la forma, ma forma ed immagine non sono mai a sé stanti, tutto deve partire da un progetto, da una visione innovativa della marca.

Che cos’è la ‘creatività’ per il packaging?

Nel packaging, la creatività deve essere innanzitutto ‘giusta’ per la marca: una campagna pubblicitaria si può cambiare dall’oggi al domani, mentre un packaging, nelle sue caratteristiche essenziali, ha una vita piuttosto lunga, quindi la nostra responsabilità è notevole. Questo non può né deve limitare la creatività, l’obiettivo di differenziare, di uscire dal comune o dal banale ci deve sempre essere: nel nostro lavoro ci sono più paletti, ma questo lo rende ancora più interessante.
Questo è un forte elemento di differenziazione all’interno del comparto, perché è solo attraverso la cultura di base, l’esperienza della marca e del packaging, che si riesce, nonostante i limiti, a costruire identità efficaci, che hanno una forte personalità e visibilità.

Qualche esempio?

Prendiamo un settore molto tradizionale come quello vitivinicolo: qui oggi si fa strada, da parte dei produttori, l’esigenza di affermare la propria marca, oggi sempre più viene valorizzato il produttore, oltre al vitigno: un tempo si comprava il Barbera, il Dolcetto... oggi si sceglie sempre di più il nome; e d’altronde si tratta di un settore in cui c’è un rapporto viscerale, molto emozionale, tra il produttore e il suo prodotto: da qui l’esigenza di dargli un nome ed un’identità propria.
E in questo il ruolo del packaging è vitale, non per nulla per definire un vino si parla di ‘etichetta’; l’etichetta rappresenta veramente il prodotto, anche la valutazione della qualità del prodotto è molto emozionale, più che razionale e quindi la percezione di un vino dipende in gran parte proprio dall’etichetta, dalla storia che racconta: quando si prende in mano la bottiglia, il vino lo si è già quasi gustato.
Inoltre quello del vino è un mercato molto frammentato, con tanti produttori, ciascuno dei quali ha un portfolio prodotti sempre più ampio, quindi emerge l’esigenza di avere una giusta strategia di marca.
Perciò sempre di più questo mercato si sta rivolgendo a dei professionisti, che in questo caso devono avere una grande conoscenza del settore, perché quello del vino è un mondo molto complesso, con una grande storia.

E nel vostro caso, l’esperienza nel settore è stata riconosciuta anche dal Premio Linea Coordinata Food ai vini Capocroce... ci racconti la storia di questo lavoro...

Capocroce, una cantina siciliana di proprietà della famiglia Gancia, è stato un progetto molto interessante perché si trattava di creare una nuova identità di marca e poi di costruire due linee di prodotti, una di base e una di alta gamma.
Anche nel vino c’è uno stile regionale, perché il vino è la terra, la cultura, è fortemente radicato nel territorio, e quindi abbiamo studiato i codici della Sicilia: nel marchio, che è una specie di stella a quattro punte, un segno arcaico, che ricorda una stella marina ma anche una croce (che richiama il nome stesso), nello stile, nei nomi stessi dei vini, che richiamano alcuni elementi ecclesiastici, perché vicino a Palermo c’è una chiesa che si chiama Chiesa della Gancia.
E infatti la linea alto di gamma è caratterizzata, dal punto di vista iconografico, proprio da segni ispirati ai rosoni delle vetrate, di stile bizantino, mentre invece l’etichetta della linea base richiama un po’, nella sua forma triangolare, la Sicilia.
Credo che il packaging sia stato apprezzato dalla giuria perché veicola bene il prodotto, la sicilianità della marca, la distintività di posizionamento delle due linee, con un messaggio chiaro e una forte personalità; poi, anzi prima di tutto, c’è la qualità del prodotto, che nel caso di Capocroce è ottima: se c’è un buon prodotto, noi possiamo aiutarlo a renderlo attraente e desiderabile, se il prodotto non è buono, c’è poco da fare.…..

Anche nel non-food avete ottenuto un primo premio per la Linea Coordinata....

Sì, con i bicchieri Bormioli, un progetto enorme, su cui stiamo lavorando da un anno e mezzo, con grande soddisfazione: si tratta infatti del restyling e del rilancio della marca Bormioli Rocco, 600 packaging, un portfolio prodotti inizialmente gigantesco ma poco organizzato.
Siamo quindi partiti con un grosso progetto strategico di razionalizzazione della gamma, che ha richiesto 4 mesi di lavoro per mettere a punto la nuova impostazione di linea, raggruppando i prodotti in pochi segmenti, tutti coordinati sotto la marca-ombrello Bormioli, cercando di rendere ciascun segmento riconoscibile attraverso codici propri, senza però cannibalizzare l’identità di marca comune.
A questa fase sta seguendo il lavoro di realizzazione di queste linee guida di strategic design, quindi è un lavoro che ha richiesto sia consulenza strategica che capacità operative, un coordinamento tra diversi attori, fotografi, illustratori, fotolitisti, stampatori, tutto gestito da noi, con un team di lavoro dedicato.

E anche nella categoria Private Label, avete ottenuto un primo premio con i prodotti Iper...

Sì, per la private label IPER lavoriamo da diverso tempo: abbiamo rifatto tutti i packaging, ma oltre a questo seguiamo la marca a 360°, E’ un progetto interessante perché oggi la private label ha la grande opportunità di affermarsi come marca a tutti gli effetti, se ne percepisce l’importanza e l’afferma come missione aziendale; il che significa attribuire alla marca dei valori rilevanti e renderli percepibili dal consumatore: la fiducia, la qualità, la convenienza... lo stesso valore dell’innovazione perché nel momento in cui la private label vuole essere una marca deve saper andare oltre le marche più consolidate.
Questo si riflette anche nei packaging, che sono sempre più accurati, con una forte identità comune, che deve consentire di ritrovare nel singolo prodotto i valori della marca-insegna: in quest’ottica abbiamo a suo tempo studiato ogni settore merceologico, mettendo a punto dei packaging che ne esaltassero le caratteristiche e si comparassero ai leader, quindi non dei me-too ma dei prodotti di grande qualità percepita, di forte personalità, firmati Iper. Quindi anche in questo caso, l’importante è avere una strategia di base, che si deve poi riverberare sul packaging.

Nei vostri lavori c’è sempre questa componente di consulenza?

Non sempre, ma diciamo che i progetti più interessanti e quelli in cui riusciamo a dare al cliente un concreto valore aggiunto differenziante sono quelli in cui veniamo coinvolti fin dalla fase strategica potendo lavorare sul packaging a partire dall’analisi della marca.
In genere, il buon lavoro si realizza con un buon cliente, che percepisce gli aspetti strategici, di lungo termine, di brand building, della comunicazione; per ricorrere ancora ad una citazione, ‘exceptional work is done for exceptional client’.

E in questo quanto è importante la specializzazione, la conoscenza del settore?

Credo che, nell’ottica di fornire un valore aggiunto al cliente, sia importante dargli la possibilità di interfacciarsi con degli specialisti: quindi si sono costituiti all’interno dell’agenzia dei reparti specializzati, come quello dedicato al settore vitivinicolo, spumantistico e liquoristico, con un manager e un gruppo creativo specializzato; così per il largo consumo, grande distribuzione e servizi, che sono i nostri ‘comparti merceologici’.
Questo è importante perché noi lavoriamo sul prodotto, siamo più legati al prodotto rispetto all’advertising, quindi dobbiamo saper comprendere le problematiche specifiche, saper trasferire competenza, conoscenza, cultura.

Che cosa caratterizza il vostro modo di lavorare?

ll nostro pay off è ‘vitamina per il brand’: noi poniamo particolare interesse al trasferire cura e cultura al cliente, con proposività ed efficienza, e non si tratta di una cultura fine a se stessa ma di una dimostrazione del fatto che noi siamo particolarmente attenti alle esigenze del cliente, gli mettiamo a disposizione delle persone preparate con un know how specifico del suo settore.
Propositività, dinamicità, efficienza, con un approccio di grande sensibilità ed attenzione verso il cliente: oggi i clienti non ti chiedono di essere genericamente flessibile, ti chiedono di essere veloce, anche nel pack in cui ci sono tempi imprescindibili, però il mondo va veloce e anche noi dobbiamo adeguarci.
Questo è possibile se si è costruito a monte un rapporto di fiducia con il cliente: oggi credo che un aspetto rilevante, al di là delle dimensioni, dell’internazionalità, dei servizi offerti, dei credits, della storia dell’agenzia, sia la sua capacità di dimostrare ai propri clienti sensibilità, attenzione, proattività, curarsi di loro, essergli vicino. Poi ci sono i risultati di mercato, il buon design è il design che vende, ma è nella creazione di un rapporto stretto, attento, fiduciario con il cliente che si misura il vero valore dell’agenzia.
Oggi possiamo dire di essere dei consulenti e non solamente dei fornitori se, in un momento difficile come questo, in cui i clienti sono un po’ frenati nei budget, riusciamo a capire, adattarci, essere propositivi, senza per questo sminuire la nostra professionalità.

Progetti?

Rba compie 10 anni, e sono stati 10 anni di crescita per fatturato e dimensioni. Oggi, se includiamo le tre società: Design, Advertising e Interactive, siamo circa 30 persone.
Il progetto a cui stiamo lavorando è quello di far crescere la struttura di advertising, sempre in una logica di specializzazione, per cui noi possiamo oggi mettere a disposizione un coordinamento e specialisti per le diverse esigenze della marca: il design, la pubblicità e i l web.
Quindi un progetto di sviluppo, nonostante il momento non brillante; infatti, la cosa che più di tutto dobbiamo fare è trasferire ottimismo e fiducia, suggerendo attraverso l’innovazione, attraverso progetti, la creazione di quegli elementi di possono consentire ad una marca di avere successo: questo, in fondo, è il nostro mestiere.

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1 agosto 2022
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