Maurizio Badiani
L'intrattenimento in comunicazione per un coinvolgimento unico
Maurizio Badiani
Direttore Creativo
Expansion
Parlando di intrattenimento e di comunicazione possiamo riflettere sul legame esistente fra questi due termini e su quanto la comunicazione debba ricorrere costantemente all’intrattenimento per attrarre l’attenzione del consumatore e raggiungere l’obiettivo di fidelizzarlo.
Noi italiani più che un popolo di santi e navigatori siamo un popolo di imbonitori e di intrattenitori. Il Silvio nazionale ha stregato l’Italia per anni dopo aver sperimentato le sue qualità di incantatore nei piani bar delle navi da crociera. Siamo il paese che ha dato i natali a Walter Chiari, a Fiorello e a Benigni. Autentici affabulatori, immaginifici prestidigitatori della parola. Per non parlare del Puzzone, che sporgendosi da un balcone, tenne per 20 anni inchiodata l’Italia. Insomma intrattenere ci viene facile.
Ma intrattenere non vuol dire necessariamente comunicare.
Carosello, che è stato padre e madre di molti spot mal nati, ha intrattenuto piacevolmente più di una generazione. Ma non comunicava tanto. E, soprattutto, informava poco.
Una tradizione che, anziché affievolirsi, sta tornando in auge. Un esempio tra tutti: i vari spot sulla telefonia che, a colpi di battute da avanspettacolo, cercano di accaparrarsi attenzione e audience per veicolare a margine un frammento di messaggio promozionale. Il quale, nella quasi totalità dei casi, se ne passa inosservato, come una nave nella notte, ucciso dall’ultima battuta o seppellito dall’ultima gag. Perché il difficile non è intrattenere, ma comunicare. In maniera efficace e coerente con lo spirito del brand. Rispettando posizionamento e tono di voce della marca. Ma – a giudicare da quel che passa il convento della comunicazione - sembra che più di uno se lo sia scordato.
In comunicazione l'importante è stabilire un contatto con chi ci ascolta perché la pubblicità è interazione, coinvolgere l’utente è la chiave per comunicare. Quest’anno vorremmo parlare di engagement, ovvero delle tecniche di coinvolgimento che riguardano l’approccio al consumatore.
Mandata in soffitta la comunicazione olistica, il popolo dell’adv ha scoperto l’engagement. Le rivoluzioni sono fatte anche di parole. Finita la comunicazione a una via, si aprono prospettive nuove per chi voglia instaurare un rapporto dialettico e fruttuoso tra la marca e il suo potenziale interlocutore. Che nel frattempo non solo si è fatto più avvertito ma ha preso piena coscienza del ruolo da protagonista che le nuove tecnologie gli permettono di svolgere. Il pallino della comunicazione per la prima volta dal tempo di Neanderthal passa nelle sue mani: buzz e social network costituiscono nuove palestre dialettiche, moderne agorà dove idee e contenuti nascono dal basso, territori inesplorati dove la marca spesso fatica a entrare e che vede al contempo come un nuovo Eldorado carico di promesse e di opportunità. E tutto ciò che è nuovo rappresenta sempre una sfida: un bivio per un successo o una sconfitta.
La funzione dell’engagement è operare per rendere la marca memorabile, raggiungendo i consumatori con comunicazioni a due vie: il brand parla al consumatore che può rispondere e dunque interagire con la marca. Da qualche tempo, infatti, si sono aperti dei canali che riguardano l'intrattenimento più attivo, si mira, di fatto, a un coinvolgimento emotivo dell’utente del messaggio e ad avere, quindi, dei feedback più personalizzati e veritieri.
La comunicazione a due vie può costituire per un’azienda un’opportunità formidabile se utilizzata con sensibilità e intelligenza. Oppure un boomerang che, mancando il bersaglio, produce, sulla via del ritorno, danni su chi l’ha scagliato. È un’eventualità non così peregrina e remota a giudicare da ciò che è successo proprio di recente a un advertiser di tutto rispetto e non certo sprovveduto come McDonald’s. “Raccontateci le vostre Mc Storie” era l’input che il gigante del fast food americano aveva dato in pasto alla rete aspettandosi un passaparola fruttuoso e positivo.
Ma la rete non ha risposto alle attese. Twitter ha cominciato a vomitare commenti negativi: un processo così dilagante e nefasto da spingere McDonald’s a chiudere velocemente la porta che, con ben altre intenzioni, aveva provato ad aprire. Eppure erano “feedback personalizzati e veritieri”.
Ammesso che, a prescindere dalle tecniche da utilizzare, ci sia l'idea creativa, possiamo chiederci quale engagement in comunicazione (il sorriso, il gioco e il trend del benessere) riesca, oggi, a gratificare a pieno l’individuo e a prolungare la sua attenzione nei confronti del brand (prodotto o servizio) senza dispersività.Creare una relazione duratura non è facile tra esseri umani. Ancora meno lo è se uno dei due poli è un’azienda.
Prolungare l’attenzione nei confronti del brand, senza dispersività”: non è solo una bella frase ma un ottimo proposito. E per di più, realizzabile. Come nelle sane ricette di una volta, quel che occorre è una solida strategia, un nitido posizionamento e un’idea creativa forte, distintiva e versatile. Il tutto condito con un trattamento che sia all’altezza dell’idea portante.
Ciò che cambia rispetto a una volta è il numero infinito di interconnessioni possibili tra brand e destinatario della comunicazione: un processo in teoria senza fine (non a caso si parla sempre più frequentemente di marketing continuativo), che impegna le aziende a tenere sempre più alto il livello di attenzione verso il “consumatore” e a trovare occasioni di contatto “accessibili” in termini di budget e realizzabili con il know-how interno di cui dispone. Per far questo molte aziende stanno investendo, assumendo profili digital specializzati, spesso di stampo più tecnico che di comunicazione. Ma ciò significa dover attingere a risorse extra in un momento non certo euforico di mercato. Al di là di queste considerazioni, l’unica regola aurea che mi sento ancora di sottolineare affinché una qualsiasi operazione di “engagement” possa avere successo è che questa sia di reale interesse per il target di riferimento e abbia una forte pertinenza col nostro brand, la sua storia, il suo vissuto.
Crede che l’intrattenimento attraverso il sorriso in tutte le sue espressioni possa rappresentare una tecnica di comunicazione interessante? Pensa che si possano riprodurre elementi che richiamino l'ironia anche con tecniche di visual?
L’humour e l’ironia non hanno limiti. Né confini. E costituiscono un ottimo passepartout per arrivare a pubblici anche molto allargati. Se si ride è perché c’è ironia. E dove c’è ironia c’è intelligenza. L’importante è che l’ironia non sia fine a se stessa ma impiegata all’interno di una comunicazione coerente che abbia forte pertinenza con la marca. Lavazza docet.
Qual è l’importanza dell’esperienza ludica, del gioco, nell'intrattenimento dell’individuo? Quanto è importante creare un meccanismo interessante, per ottenere l'attenzione e divertire le persone facendole anche riflettere?
I giochi virtuali hanno aperto un mondo nuovo allargando ulteriormente l’area di operazione di chi fa o si interessa di comunicazione. Un mondo in pratica infinito. Ciò che è “finito” invece – nel senso di limitato - è il tempo a disposizione di chi vogliamo “ingaggiare”. Da qui la necessità di trovare qualcosa che sia di reale interesse per le persone che si intende coinvolgere e – ancora più importante - che abbia una connessione il più possibile forte coi Valori della marca proponente. Se poi il “gioco” fa anche riflettere, tanto meglio. Sarà un omaggio della Marca all’intelligenza di chi ha deciso di seguirla.
Quanto è importante far sentire ogni individuo una persona speciale cercando di renderlo davvero protagonista, motivandolo e facendolo diventare così brand partner? Far star bene il consumatore ricaricandolo di energia rinnovata, come crede possa essere legato alla parola, spesso abusata, di benessere?
Far sentire ogni individuo una persona speciale è l’obiettivo più ambizioso che possa prefiggersi qualsiasi comunicatore. Le nuove tecnologie, in grado di stabilire un rapporto one to one, rendono la cosa teoricamente accessibile. Ma tra ammettere questo e fare di ogni nostro interlocutore un possibile “brand partner” il processo è lungo e irto di mille ostacoli e difficoltà. Solo un brand che produca e dica cose “interessanti”, che lo faccia con trasparenza e con costanza, che sappia essere sempre presente ogni qual volta venga interpellato o chiamato in causa da chi gli si rivolge, può sperare di fare di un semplice, potenziale “consumatore” un vero supporter della Marca. Ma, specie coi chiari di luna che caratterizzano il mercato, quante sono le marche che possono aspirare a farlo?